ROMA
Le indagini sull'attentato a Ranucci: l'esplosivo, la persona incappucciata, le minacce della mafia e i sicari albanesi
Identificare la tipologia di ordigno potrebbe permettere di risalire agli autori dell’intimidazione
I carabinieri del Ris stanno esaminando i reperti del congegno artigianale che giovedì sera ha semidistrutto le due auto del giornalista Sigfrido Ranucci, parcheggiate davanti alla sua abitazione di Pomezia, alle porte di Roma. L’obiettivo degli investigatori è identificare la tipologia di esplosivo impiegata per tentare di risalire agli autori dell’intimidazione, che solo per un caso fortuito non ha provocato vittime.
L’attenzione degli inquirenti è rivolta anche all’individuazione di una persona incappucciata, segnalata da un testimone, vista allontanarsi poco prima della deflagrazione. In corso verifiche su una vettura con cui l’attentatore, o più persone, potrebbe aver fatto perdere le proprie tracce.
Secondo una prima analisi, l’ordigno era costituito da circa un chilogrammo di esplosivo compresso ed è stato collocato con miccia accesa tra due vasi, all’esterno della villetta. Chi lo ha posizionato sembra conoscere gli spostamenti del cronista, rientrato proprio giovedì dopo alcuni giorni di assenza.
Gli specialisti dell’Arma stanno eseguendo accertamenti anche su un’auto risultata rubata, individuata a breve distanza dal luogo dell’esplosione. Al momento, tuttavia, non emergono collegamenti accertati tra i due episodi.
Parallelamente proseguono gli approfondimenti sulle minacce rivolte a Ranucci, incluse quelle riconducibili alla mafia siciliana e alla ’ndrangheta. Il conduttore, autore di decine di inchieste sui traffici della criminalità organizzata, è sotto tutela mobile dal 2009, quando, dopo un lavoro su una cava di sabbia, la famiglia Ercolano chiese a un soggetto ritenuto pericoloso di sorvegliarlo. Anche nel 2010 — raccontò Ranucci — «un esponente dei Santapaola voleva farmi ammazzare, ma l’omicidio fu stoppato da Matteo Messina Denaro».
Il livello di allerta è aumentato nel 2021, con l’assegnazione della scorta 24 ore su 24. «Un narcotrafficante legato alla ’ndrangheta e al cartello di Pablo Escobar aveva incaricato due killer albanesi di spararmi — rivelò Ranucci —. Non aveva gradito un mio servizio sui rapporti tra politica e criminalità».