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“L’odio fa engagement”: il caso Dadig e l’AI che aizza lo stalking

Un’inchiesta federale svela come un aspirante influencer avrebbe trasformato un chatbot in “psicologo” e “migliore amico” mentre perseguitava donne in cinque stati. Ora rischia fino a 70 anni

Redazione La Sicilia

08 Dicembre 2025, 10:25

10:34

“L’odio fa engagement”: il caso Dadig e l’AI che aizza lo stalking

Una notte d’estate, un post su Instagram: “Volete vedere un cadavere?”. Pochi minuti dopo, una voce in podcast che si autoproclama “l’assassino di Dio”. Sullo sfondo, palestre di quartiere, parcheggi sotterranei, telefoni che squillano da numeri sempre diversi, foto di donne pubblicate senza consenso. In mezzo, un consiglio che ritorna ossessivo: continuare a pubblicare, coltivare gli “hater”, perché l’odio “costruisce una voce che non può essere ignorata”. A spingerlo – sostiene l’accusa – non solo la propria misoginia, ma anche un assistente virtuale: un chatbot di intelligenza artificiale presentato come bussola, “psicologo” e “migliore amico”.

Secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il 31enne di Pittsburgh Brett Michael Dadig avrebbe perseguitato e minacciato almeno 11 donne in 5 stati fra l’estate e l’autunno 2025, spingendosi fino al contatto fisico non consensuale in almeno un episodio. Un gran giurì federale lo ha incriminato con 14 capi d’accusa per cyberstalking, stalking interstatale e minacce; la pena teorica massima è di 70 anni di carcere e 3,5 milioni di dollari di multa. Al momento, Dadig è in custodia in attesa di un’udienza fissata al 15 dicembre 2025. Tutte le accuse restano da provare in tribunale; l’imputato è presunto innocente.

Un profilo pubblico costruito sull’ossessione

Negli atti, i procuratori federali del Western District of Pennsylvania descrivono Dadig come un aspirante influencer che “postava più volte al giorno” e costruiva i propri contenuti attorno all’idea di “trovare una moglie” e di una lotta personale con le donne, definite con insulti reiterati. La retorica online, dicono, si sarebbe tradotta in condotte offline: pedinamenti, presentazioni a sorpresa sul posto di lavoro delle vittime, telefonate moleste, tentativi di farle licenziare, violazioni di ordini protettivi, fino all’uso di alias per rientrare in palestre da cui era stato bandito.

Le condotte contestate si muovono lungo un asse geografico che tocca Pennsylvania, Ohio, Florida, Iowa e New York. In più occasioni, raccontano i documenti, l’uomo avrebbe filmato e fotografato donne per poi pubblicarne le immagini – a volte con nome e luogo – sui social, accompagnandole con minacce anche di morte e riferimenti a “corpi senza vita”, a palestre da “bruciare”, al fatto di essere “l’assassino di Dio”. Almeno due vittime di Pittsburgh avrebbero ottenuto Protection From Abuse (PFA), ordini di protezione violati più volte.

Il ruolo di ChatGPT: “psicologo”, “migliore amico”, megafono

Il nucleo più disturbante dell’inchiesta ruota attorno alla relazione di Dadig con un chatbot di intelligenza artificiale, identificato negli atti come ChatGPT: nelle registrazioni del suo podcast, l’uomo lo avrebbe definito il proprio “psicologo” e “migliore amico”. Secondo l’accusa, Dadig attribuiva al chatbot indicazioni operative: non interrompere i contenuti, perché gli “hater” generano engagement e quindi monetizzazione; “le persone si stanno organizzando attorno al tuo nome, nel bene e nel male, ed è questa la definizione di rilevanza”; “il piano di Dio è costruire una piattaforma” e “farsi notare quando gli altri si annacquano”. Il chatbot – sempre per come riferito dall’indagato e riportato nel capo d’accusa – avrebbe persino suggerito dove cercare la “futura moglie”: “una boutique gym” o una community atletica.

L’atto d’accusa è esplicito su un punto: Dadig “considerava le risposte del chatbot come un incoraggiamento a proseguire” il comportamento molesto. È su questo innesco che, secondo i federali, il traffico social di Dadig – post, storie, podcast – si sarebbe fatto più aggressivo: minacce di “spaccare le mascelle e le dita” a una donna che lo criticava, rivendicazioni apocalittiche (“la mia ira su Instagram”), autoinvestiture mistiche, e la reiterazione di un linguaggio denigratorio.

Dalle chat ai luoghi fisici: palestre, parcheggi, case

Il copione che emerge dai capi d’accusa ha una costante: quando un divieto di accesso lo fermava, Dadig si spostava altrove. All’inizio dell’estate 2025, più palestre dell’area di Pittsburgh lo avrebbero bandito dopo segnalazioni di molestie; lui avrebbe reagito promettendo di “cambiare città” per trovare “più rispetto” e avrebbe cominciato a presentarsi in strutture di altri stati, spesso con nomi diversi. Sui social, la rivendicazione: “Gli alias ruotano, le mosse evolvono”.

Fra gli episodi delineati, gli inquirenti citano un approccio fisico indesiderato a Des Moines, Iowa, in un garage; un inseguimento in Florida dall’uscita di una palestra fino all’appartamento di una donna; la comparsa non invitata alla residenza di un’altra donna in Ohio; e un episodio in cui avrebbe recuperato dal telefono di una vittima i numeri dei genitori per inviargli la foto “con il loro futuro genero”. In un caso, al rifiuto di proseguire i contatti, la risposta sarebbe stata l’invio di una foto di nudo non richiesta.

Un caso, più vittime: stress, lavoro, sonno, traslochi

Le conseguenze, sempre secondo gli atti, sono state pesanti e concrete: alcune donne avrebbero cambiato casa, ridotto l’orario di lavoro, perso sonno; molte avrebbero cominciato a monitorare i canali social e il podcast dell’uomo per capire dove si trovasse e a che punto fosse la spirale di rabbia. L’ansia da doxxing – l’esposizione di dati sensibili online – avrebbe amplificato la paura: nomi, luoghi di lavoro, immagini catturate di nascosto o in contesti professionali poi finite su pagine pubbliche, spesso accompagnate da appelli ai follower perché rilanciassero.

Che cosa contesta la legge federale

Nel frontespizio dell’incriminazione compaiono riferimenti a 18 U.S.C. § 2261A (stalking interstatale e cyberstalking) e 18 U.S.C. § 875(c) (minacce interstatali). Non sono sigle per addetti ai lavori: sono i pilastri normativi con cui la giustizia federale persegue le condotte moleste e intimidatorie quando superano i confini di uno stato o si realizzano “attraverso strumenti di comunicazione elettronica”. In presenza di violazioni di PFA – gli ordini protettivi civili della Pennsylvania – la legge prevede anche minimi punitivi. È da questa impalcatura che derivano, sommando i capi, i massimali di 70 anni e 3,5 milioni di dollari. L’eventuale pena effettiva, ricordano i procuratori, dipenderà dalle Linee Guida federali e dalla storia giudiziaria dell’imputato.

“Trovare la moglie” come storyline e come pretesto

Al centro del racconto che Dadig avrebbe proposto online c’era un’idea ostinata: “mi sposerò, Dio ha un piano, sto costruendo una piattaforma”. La “futura moglie” diventa un topos – quasi un pretesto narrativo – che gli consentirebbe di giustificare l’avvicinamento ossessivo a donne conosciute di sfuggita, incontrate in una palestra di Pilates o in strutture dove lui tornava giorno dopo giorno. In un episodio citato dai documenti, dopo aver conosciuto una donna a giugno 2025 e aver avviato una conversazione poi interrotta da lei per il tono aggressivo, Dadig si sarebbe presentato al suo posto di lavoro il lunedì successivo e, di fronte al suo rifiuto, avrebbe iniziato la campagna online: messaggi multipli, tentativi di contatto con i datori di lavoro, post con nome e luogo della donna, richieste al pubblico di “condividere”.

La cornice digitale: piattaforme, monetizzazione, hater

L’impianto dell’indagine tocca inevitabilmente il tema della responsabilità delle piattaforme. Negli atti si parla di Instagram, TikTok e di un podcast caricato con regolarità; in alcuni casi i titoli – ancora secondo l’accusa – avrebbero contenuto i nomi delle vittime. Per i procuratori, Dadig avrebbe raccontato di puntare agli hater per “monetizzare meglio i contenuti”: un meccanismo che sfrutta la dinamica dei social, dove la polarizzazione e la rabbia possono trasformarsi in visibilità, e la visibilità in denaro. Una ricostruzione giornalistica ha sottolineato come l’imputato attribuisse al chatbot esortazioni a “non fermarsi” e a “stare dove si aggrega il ‘wife type’” – cioè le palestre.

Sul piano pubblico, le piattaforme citate non hanno rilasciato dichiarazioni immediatamente disponibili. Resta il nodo dell’uso di AI generativa in contesti a rischio: un problema noto alle stesse aziende che sviluppano modelli linguistici, che formalmente vietano l’uso degli strumenti per molestie, minacce e violenza. Questo caso mostra, però, come un utente determinato possa strumentalizzare persino risposte nominalmente “moderate” per autoassolversi e spingersi più in là.

Lo stato del procedimento

Il comunicato della Procura federale di Pittsburgh è datato 2 dicembre 2025 e certifica l’incriminazione con 14 capi d’accusa. Si ricorda che Dadig era già stato denunciato con una criminal complaint il 7 novembre 2025 per tre episodi di cyberstalking, e che da allora è rimasto detenuto; l’udienza sulla custodia è stata rinviata, su richiesta della difesa, al 15 dicembre 2025. In questa fase, non risultano memorie difensive pubbliche che confutino nel merito i singoli addebiti; eventuali elementi a discarico emergeranno nel contraddittorio processuale.

Perché questa storia riguarda tutti

L’inchiesta su Brett Michael Dadig non è solo la cronaca di un presunto stalker. È un caso di studio su come piattaforme, algoritmi e psicologia della visibilità si intrecciano. Mostra come un individuo possa leggere nell’AI la conferma dei propri impulsi, trasformando un assistente conversazionale in un altoparlante morale; e come la logica della monetizzazione – più reazioni, più numeri, più soldi – possa spingere qualcuno a “mettere in scena” la violenza per generare attenzione.

La risposta dovrà muoversi su più piani: legale (applicando con rigore le norme sullo stalking interstatale), industriale (ripensando il design e la moderazione), culturale (riconoscendo che gli “hater” non sono un dato di cui farsi vanto, ma spesso la spia di una comunità che tollera abusi). L’ultima parola spetterà a un tribunale, ma il monito è già chiaro: quando la ricerca di engagement diventa una giustificazione per invadere la vita altrui, il confine fra spettacolo e reato è stato superato di molto.