×

L'INCONTRO

Il retroscena dei “venti minuti”: cosa è davvero successo tra Mattarella e Meloni, oltre i sussurri di Palazzo

Un colloquio breve e denso, un comunicato che cambia il tono, l’ombra del “piano del Colle” e le onde lunghe nella maggioranza: ecco perché il faccia a faccia tra presidente e premier conta più delle voci

Alfredo Zermo

19 Novembre 2025, 20:33

21:22

Il retroscena dei “venti minuti”: cosa è davvero successo tra Mattarella e Meloni, oltre i sussurri di Palazzo

Un orologio antico scandisce i secondi nel Salone delle Feste. Fuori, Roma corre. Dentro, due figure si parlano a bassa voce. Il colloquio dura appena venti minuti: abbastanza per allentare la tensione, non abbastanza per fermare le interpretazioni. Alla fine, ciò che resta non è solo la stretta di mano tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, ma il contrappunto tra la sobrietà del Quirinale e la “nota” di Palazzo Chigi che — per molti — suona come un colpo di piatti fuori tempo. E rianima un interrogativo antico quanto la politica italiana: quando finisce il confronto istituzionale e quando comincia la comunicazione politica?

Anche perché le relazioni tra Mattarella e Meloni sono state sempre corrette istituzionalmente ma non si sono mai spinte oltre. Le premesse erano chiare sin dall’inizio: nel gennaio 2022 FdI infatti non votò a suo favore per il bis al Quirinale.
In questi quasi quattro di presidenza della Repubblica sono stati diversi i rilievi fatti arrivare dal Quirinale a palazzo Chigi. Ma torniamo allo scontro di questi giorni

La scena e i fatti: cosa sappiamo del faccia a faccia

L’incontro al Quirinale, chiesto in mattinata dalla presidente del Consiglio, si è svolto nel pomeriggio di oggi. È durato poco: circa venti minuti. Secondo più fonti, l’obiettivo era “ribadire la sintonia istituzionale” tra i due vertici dello Stato, dopo uno scontro alimentato da articoli di stampa e da una dura replica del Colle.

Nel corso del colloquio, la premier avrebbe espresso “rammarico” per le parole del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, giudicate inopportune sul piano istituzionale. È uno dei punti che emergono con nettezza: gesto distensivo e presa di distanza da toni giudicati eccessivi.

Secondo ricostruzioni convergenti, il presidente della Repubblica avrebbe apprezzato la richiesta di incontro e — sul piano personale e istituzionale — considerato il caso “potenzialmente chiuso” dopo le scuse.

Ma è la “nota” di Palazzo Chigi, diffusa al termine del faccia a faccia, a riaprire il dibattito perché insiste sul rammarico per le parole del consigliere del Colle Francesco Saverio Garofani, riportate da un quotidiano. Per ambienti del Quirinale, quel testo suona “stonato” rispetto ai toni del colloquio.

In Parlamento, frattanto, circolano versioni discordanti: c’è chi parla di un incontro “teso”, chi invece di una conversazione corretta e lineare. Le stesse fonti convergono su un punto: in quei venti minuti si è tentata una messa in sicurezza del canale istituzionale. È la successiva battaglia di comunicazione a moltiplicare le letture.

L’origine del caso: l’articolo e la dura replica del Colle

Il detonatore è un titolo che buca l’agenda: «Il piano del Quirinale per fermare Meloni». Lo pubblica il quotidiano “La Verità”, attribuendo a Francesco Saverio Garofani - consigliere del Presidente della Repubblica e segretario del Consiglio Supremo di Difesa, già parlamentare del centrosinistra - frasi su scenari politici imminenti e sull’ipotesi di una «grande lista civica nazionale» capace di competere con il centrodestra.

Il capogruppo di FdI, Galeazzo Bignami, chiede «una smentita senza indugio». La risposta del Quirinale è fulminea e insolitamente tranchant: «Al Colle si registra stupore» e si «sconfina nel ridicolo» nel dare credito a «un ennesimo attacco alla Presidenza della Repubblica». Da qui lo scarto, percettibile, tra istituzioni e maggioranza.

Nel quadro, un’ulteriore tessera: lo stesso Garofani si dice «amareggiato», sostenendo che si trattava di «chiacchiere tra amici» captate in un contesto informale, e che il presidente Mattarella lo avrebbe rassicurato. È una smentita sostanziale, che mira a depoliticizzare la conversazione riportata dal quotidiano.

Cosa è successo dopo l’incontro: il comunicato e il controcanto

Al termine della visita, Palazzo Chigi diffonde una nota: nessuno “scontro istituzionale”, piena sintonia con il Colle, e la sottolineatura del “rammarico” espresso dalla premier per le parole attribuite a Garofani. Non è un dettaglio: per alcuni osservatori, quel passaggio tiene viva la polemica; per altri, circoscrive il contenzioso al perimetro delle frasi contestate, distinguendo il rispetto per il Quirinale dalla critica a un consigliere. Nel frattempo, i capigruppo Lucio Malan e Galeazzo Bignami firmano una chiosa: «Fratelli d’Italia ritiene la questione chiusa e non reputa di aggiungere altro», rinnovando  la «stima» per Mattarella. Un modo per stoppare l’escalation e raffreddare il clima.

Che cosa dicono le fonti: sintonia istituzionale o tregua armata?

Le fonti di Palazzo Chigi insistono: la visita al Quirinale serve a riaffermare la sintonia istituzionale mai venuta meno dall’insediamento del governo e a smentire la tesi dello scontro. È un messaggio di rassicurazione, rivolto tanto all’opinione pubblica quanto ai mercati e ai partner europei, attenti alla stabilità italiana.

Dall’altra parte, ambienti del Colle avevano già definito “ridicole” le illazioni di un presunto “piano”, esprimendo stupore per la richiesta di smentita di Bignami: un lessico asciutto ma inusuale, che segnala l’eccezionalità del caso e la volontà di difendere il perimetro costituzionale della neutralità del Capo dello Stato.

In questa cornice, i venti minuti diventano uno spartito a due mani: nel colloquio, Mattarella e Meloni smussano gli spigoli; nella comunicazione, ogni parte suona la propria partitura politica. La differenza di tono tra la stanza e la nota pubblica è il punto che ha fatto discutere.

Il ruolo di Bignami e l’eco nel dibattito parlamentare

La richiesta pubblica di Galeazzo Bignami ha avuto l’effetto di istituzionalizzare la polemica giornalistica. Chiedere al Quirinale una smentita “senza indugio” significa portare il confronto sul terreno della responsabilità delle istituzioni. La replica del Colle, con l’uso dell’aggettivo “ridicolo”, ha a sua volta segnato un confine: difesa dell’imparzialità presidenziale e rigetto di dietrologie. La politica ha reagito secondo linee prevedibili: l’opposizione parla di “intimidazione” della maggioranza; nel centrodestra c’è chi rilancia sul merito delle presunte frasi di Garofani e chi invece punta a chiudere subito.

Il giorno dopo, l’iniziativa della premier allo scopo — dichiarato — di rimettere il rapporto istituzionale al centro. Un gesto che, di per sé, prova a separare il circuito delle polemiche dal canale Quirinale-Governo. Ma l’attenzione resta alta: il segnale viene letto come una correzione di rotta operata direttamente da Meloni, a tutela della relazione con il Capo dello Stato.

Chi è Francesco Saverio Garofani e perché il suo nome conta

Consigliere di Sergio Mattarella e segretario del Consiglio Supremo di Difesa, Francesco Saverio Garofani è figura di cerniera tra Presidenza, Palazzo Chigi e vertici militari sui temi della difesa e della sicurezza nazionale. È anche un ex parlamentare del centrosinistra. È per questo che le presunte frasi a lui attribuite hanno sollevato più di un sopracciglio: evocate come prova di un “piano”, sono state immediatamente smentite dal Colle nella sostanza e da Garofani nel contesto e nel significato. La sua reazione — “sono amareggiato” — e il riferimento a Mattarella che lo avrebbe “rassicurato” delineano la volontà di riportare il caso sul terreno della responsabilità personale e non dell’istituzione.

Perché questa vicenda pesa oggi (e forse domani)

  • I rapporti tra Presidenza della Repubblica e Governo sono un asse portante dell’architettura costituzionale: ogni crepa percepita si riflette sulla percezione di stabilità. Da qui l’urgenza della premier di salire al Quirinale e di ribadire la “sintonia”.
  • In controluce, scorrono i prossimi test della politica italiana: la sessione di bilancio, i dossier europei e, più avanti, le dinamiche verso le elezioni politiche. L’eco di un presunto “piano del Colle” rischiava di trasformarsi in un rumore di fondo permanente, con effetti corrosivi sulla fiducia reciproca.
  • Il lessico scelto dal Quirinale (“ridicolo”) è un segnale: la neutralità del Capo dello Stato non è terreno negoziabile. Chi immagina un Colle “di parte” si scontra con il muro-costituzione. La precisazione pubblica è servita a riaffermare l’ovvio, ma in modo che non passasse inosservato.

La “nota stonata”: un incidente tattico o una scelta deliberata?

L’impressione, in più ambienti parlamentari, è che il comunicato di Palazzo Chigi abbia ricomposto il quadro e insieme lo abbia reso più controverso. Se da un lato sancisce la “sintonia” e la “non esistenza di uno scontro istituzionale”, dall’altro ripropone — sia pure in forma di “rammarico” — il nodo delle parole attribuite a Garofani. È la quadratura del cerchio della politica: non smentire se stessi, ma non incrinare il rapporto con il Quirinale. Una mossa che tiene insieme unità della maggioranza e rispetto per le prerogative del Capo dello Stato. E però lascia agli interpreti la domanda: non sarebbe bastato un comunicato più essenziale, limitato al solo richiamo alla sintonia? Le reazioni indicano che quel passaggio è stato percepito come la vera “nota stonata”.

Cosa resta oggi: cinque certezze, tre incognite

Le certezze: i colloquio tra Mattarella e Meloni c’è stato, è durato circa venti minuti ed è stato richiesto dalla premier per rasserenare i rapporti istituzionali; la premier ha espresso rammarico per le parole di Bignami e, più in generale, per l’innalzamento dei toni; il Quirinale aveva già respinto con forza l’idea di un “piano contro Meloni”, definendo “ridicola” l’intera costruzione polemica; Garofani ha parlato di “chiacchiere tra amici”, dichiarandosi “amareggiato” e riferendo di essersi sentito rassicurato dal Presidente; i capigruppo di Fratelli d’Italia hanno poi affermato di considerare la “questione chiusa”, rinnovando la stima per il Capo dello Stato.

Le incognite: come verrà gestita, nelle prossime settimane, la comunicazione istituzionale di Palazzo Chigi su dossier sensibili? Basterà evitare aggettivi, o servirà una regia politica più coesa? La maggioranza terrà questa linea di “ricomposizione”, o rivedremo uscite dissonanti come quella di Bignami? Quali effetti produrrà l’episodio nel rapporto — complesso per definizione — tra la Presidenza e i partiti in vista dei prossimi appuntamenti politici?

L’angolo costituzionale: tra prassi e confini

Il Capo dello Stato esercita una funzione di garanzia e arbitro nei momenti di tensione. Per questo, storicamente, ogni volta che un esponente politico chiama in causa il Quirinale su questioni di parte si determina una scossa d’assestamento. La linea tenuta in queste ore rientra nella prassi: colloquio riservato, nessuna dichiarazione ufficiale di Mattarella, messaggi affidati all’autorevolezza del silenzio e a formule sobrie. La differenza — nella percezione — l’ha fatta una replica preventiva e scolpita nella pietra: “stupore” e “ridicolo”. È stata la scelta di chiudere il varco aperto da una narrazione che rischiava di trascinarsi.

Quanto a Palazzo Chigi, il confine è più mobile. La premier è anche leader di partito: le sue parole parlano al Colle e alla coalizione. In questo doppio registro si spiega la “nota” che, mentre ricuce, marca un punto politico. Un equilibrio delicato che, se riprodotto con cura, può stabilizzare; se reiterato senza la giusta taratura, può ridare fiato alle dietrologie.

Conclusione: un equilibrio ritrovato, non scontato

In definitiva, il caso sembra — oggi — riportato entro argini gestibili: la sintonia istituzionale è stata ribadita, le espressioni più ruvide sono state ricondotte a responsabilità individuali, la catena di comando tra Palazzo Chigi e Quirinale non appare intaccata. Resta, però, una traccia: la consapevolezza che, in questa fase politica, basta un titolo e una dichiarazione per alzare l’asticella del conflitto.

È una lezione per tutti. Per la maggioranza, chiamata a modulare i toni dei propri dirigenti quando sfiorano i confini del Colle. Per l’opposizione, che dovrà evitare di leggere ogni sfumatura come un casus belli permanente. E per le istituzioni, che continueranno a fare ciò che hanno fatto in queste ore: parlare nel modo più efficace possibile, che a volte — in Italia — significa parlare il meno possibile.