l'analisi
Paternò, capitale del potere e allegoria di un'isola
Il comune italiano a più alta densità di potere politico (ma anche quello con una dispersione scolastica da record nazionale) subisce, per la prima volta nella sua storia, l’onta dello scioglimento per mafia. La notizia - si dirà - era nell’aria. E comunque si tratta di una faccenda locale: le mani dei clan nella zona grigia fra imprenditoria e politica. Un classico contemporaneo.
Eppure questa (brutta) storia non riguarda soltanto i paternesi, noti come orgogliosi mangialarunchi per la tradizione gastronomica legata alla rane. Sostituendo il binocolo col microscopio, si arriva a vedere, con amara nitidezza, una realtà che rappresenta l’intera Sicilia.
La prima suggestione è legata al cittadino più illustre: Ignazio La Russa. Il presidente del Senato ha fatto la fortuna politica di tanti suoi adepti. Primo fra tutti il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno. Sicché Paternò può sfoggiare, in contemporanea, le seconde cariche dello Stato e della Regione. Più un deputato nazionale (dentista di La Russa), un’ex consigliera del Csm e uno stuolo di peones piazzati in poltrone e strapuntini dei palazzi di Roma e Palermo. Se si calcolasse un parametro scientifico, con un punteggio alle cariche, questa sarebbe la città con la maggiore quantità di potere per numero di abitanti.
Ma, sia chiaro, i “Fratelli di Paternò” non c’entrano con lo scioglimento per mafia. E anzi si affrettano a ostentare il loro ruolo di oppositori al sindaco Nino Naso, coinvolto nell’inchiesta per voto di scambio da cui trae spunto la relazione prefettizia alla base del provvedimento del Consiglio dei ministri. E qui si arriva al primo punto di caduta. Il primo cittadino sarà pure espressione di Raffaele Lombardo, ma nella sua esperienza amministrativa ha flirtato a destra (anche con FdI) e a sinistra, Pd compreso. Da quando Naso è finito nei guai tutti lo rinnegano, ma sono davvero pochi quelli che possono dire di non averci avuto a che fare. Ed è proprio questo “inciucismo”, lo stesso che all’Ars ha prodotto la saga (e la sagra) della mancette, a Paternò lautamente distribuite, la cifra politica di quello che succede qui. Ma non soltanto qui.
Con lo stesso meccanismo la borghesia illuminata etnea s’è spenta nel cupio dissolvi delle consulenze e del sottogovernicchio da poche migliaia di euro. Così la potenziale denuncia, nella cosiddetta società civile, s’è adagiata in un darwiniano istinto di sopravvivenza. Anche perché dell’epopea dell’oro rosso a Paternò è rimasto ben poco: oggi, con le arance, gli unici affari li fanno i caporali sfruttando i nuovi schiavi. Ghettizzati, giammai integrati, nella baraccopoli di Ciappe Bianche. Sfruttati due volte: per il lavoro nei campi a quattro euro l’ora e quando c’è da additare i “nemici” dopo l’ennesima rissa in centro.
Così la mafia ha davvero gioco facile. Approfitta di una comunità narcotizzata, in cui non è sempre difficile distinguere i buoni dai cattivi. L’epopea dei Ligresti, partiti da Paternò per diventare gli imperatori prima del mattone e poi della finanza a Milano, sembra un ricordo lontano. Eppure altri eredi scalpitano, fra affari di cemento e di broker. C’è chi ci prova con i call center, altra specialità tipica paternese, e chi si tuffa nel profumo dell’immondizia. Cambiano i tempi e i protagonisti, ma non i modelli.
E allora anche la parte più sana di Paternò - allegoria di una Sicilia dei vinti degli avvinti - è costretta a girarsi dall’altra parte. A sopportare in silenzio. Sognando un ospedale che non sia un “postificio” per raccomandati e agognando scuole senza alunni in fuga, mentre covano una rivolta culturale che resta un urlo strozzato in gola.
Tanto vincono sempre loro. A Paternò, ma non soltanto a Paternò. Quelli che aprono la porta a tutti, belli e brutti, quelli che non dicono mai no. Il Comune, anche qui, non è infestato da picciotti che entrano con la coppola in testa e la lupara nella fondina. È la zona grigia dei colletti bianchi, quel luogo-non-luogo dove l’espressione paternese per antonomasia - «muoviti fermo» - diventa allo stesso tempo una filosofia esistenziale e una condanna sociale.
Ecco perché adesso a Paternò la favola di Grimm si trasforma in un film dell’orrore. Il principe che, per una maledizione, diventa un ranocchio. Senza alcuna principessa che venga a baciarlo. E con la friggitrice che lo aspetta.