Il focus
Il riciclaggio ha cambiato “pelle”. «Criptovalute? Le armi ci sono»
Viaggio nel pianeta delle monete digitali. Intervista a Gennaro Gigante, professore di economia e regolamentazione dei mercati finanziari dell’Università di Catania.
L'innovazione digitale della moneta presenta opportunità. Ma, come tutti i sistemi in continua evoluzione, si possono aprire spiragli che possono generare strade per movimentazioni finanziarie opache. I presidi di controllo sulle criptovalute – e sul possibile utilizzo come mezzi di riciclaggio dei capitali illeciti – si sono rafforzati negli ultimi anni.
La Banca d'Italia con l'Unità di Informazione Finanziaria (UIF) e con le segnalazioni sospette (SOS) – sono migliaia quelle che arrivano ogni anno – ha creato un apparato di monitoraggio che regge e sta reggendo. A questo va aggiunto l'obbligo che hanno gli ordini professionali (notai, commercialisti, avvocati) di segnalare anche loro alla UIF possibili operazioni sospette. Da queste numerose segnalazioni, poi i professionisti della Banca d'Italia inviano alle autorità competenti (Guardia di Finanza e DIA) quelle operazioni che hanno ampie percentuali di rischio d’illecito. I “vaccini” quindi ci sono. E funzionano. Non per questo però bisogna adagiarsi sugli allori. Il mercato delle “cripto” cambia a ritmi vertiginosi ed è necessario quindi affinare sistemi di controllo sul riciclaggio che guardino dove magari si sono create delle falle.
Andiamo per ordine. Cominciamo da alcuni numeri. Il riciclaggio di denaro in Italia è stimato tra l'1,5% e il 2,0% del PIL, corrispondente a circa 25–35 miliardi di euro all'anno per il periodo 2018–2022. I dati sono frutto degli studi della UIF della Banca d'Italia, che monitora le migliaia di SOS. Il riciclaggio legato alle criptovalute ammonterebbe a circa 75 milioni di euro. L’ambiente delle monete flat (quelle che siamo abituati a conoscere) passa da un doppio controllo: Banca d’Italia a livello nazionale, BCE sul piano europeo. Quello sulle valute digitali è un po' diverso poiché i mercati finanziari delle cripto non hanno confini ben definiti. E se in Europa il Regolamento sui mercati delle criptovalute (MiCAR) ha portato delle norme più stringenti, negli Stati Uniti il Genius Act ha meno rigidità. E questa discrepanza regolamentare provoca delle anomalie.
Per dirimere i delicati e complessi meccanismi del pianeta “cripto” abbiamo sollecitato Gennaro Gigante, professore di economia e regolamentazione dei mercati finanziari dell’Università di Catania. Partiamo dalla differenza fra le principali valute digitali: i bitcoin e le stablecoin. Queste ultime sono ancorate a una moneta flat, dollaro oppure euro. Quindi, a un’analisi superficiale, la stable parrebbe un po’ quella più protetta dalle insidie delle manovre del riciclatore. Ma invece non è così. Perché se in effetti le operazioni di “arricchimento” da bitcoin sono meno controllabili, dall’altra parte hai due strumenti tangibili che permettono di circoscrivere la filiera. E cioè: l’investimento iniziale di acquisto della criptovaluta e la conversione finale in moneta flat. «È proprio nel momento della conversione che si attivano tutti i presidi di controllo di cui il sistema anti-riciclaggio dispone. E, diciamolo, apertamente: il sistema sta reggendo», dice il professore Gigante. Le operazioni in criptovalute avvengono nelle cosiddette piattaforme exchange. In gergo tecnico sono chiamate VASP (Virtual Asset Service Provider): queste, per poter operare in Italia, debbono avere delle certificazioni che tutelano l'intero sistema. Ultimamente è stata introdotta anche una normativa che obbliga i VASP esteri ad avere un punto di contatto in Italia (che ha l'obbligo di essere certificato). Se i bitcoin hanno la necessità di una conversione, questo non avviene invece per le stablecoin. Queste tipologie di cripto, infatti, essendo ancorate a un asset monetario reale, come ad esempio l’euro e il dollaro, hanno una stabilità che li equivale quasi alla moneta flat. E quindi non c'è l'obbligo di conversione in moneta “cartacea”. Questa peculiarità apre qualche rischio in più rispetto in tema di riciclaggio. Le stablecoin attraverso trasferimenti su unchain wallet – che sono gestiti da privati senza alcun obbligo di controlli di banche e VASP – potrebbero nascondere movimentazioni opache. «La capitalizzazione globale delle criptovalute ha superato i 4 milioni di dollari - spiega il professore Gigante - le stablecoin rappresentano ormai quasi 300 miliardi di dollari, ovvero circa il 7,5% del mercato delle cripto con una crescita annua del 75%. Ma va detto che in Europa comunque sono in netta minoranza rispetto alle operazioni tramite bitcoin». Ma al di là dei numeri, non bisogna farsi trovare impreparati. «La loro crescita solleva importanti interrogativi - aggiunge Gigante - sulla governance, sulla stabilità, sul loro potenziale uso improprio per scopi illeciti. La facilità d’uso dello stablecoin, l’accessibilità globale e la limitata tracciabilità di alcuni protocolli le rendono particolarmente suscettibili ad abusi». Per «mitigare i rischi di uso illecito delle stable ed evitare punti ciechi normativi - sollecita il professore - l’emissione dovrebbe essere limitata alle giurisdizioni che rispettano standard normativi equivalenti, garantiscono il rimborso alla pari e applicano protocolli di crisi trans-giurisdizionali. La solidità di un quadro multi-emittente dipende da una solida cooperazione transfrontaliera fra le autorità di vigilanza».