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“Cat’s Squirrel” al Marquee, l’urlo del blues: addio a Mick Abrahams, la prima chitarra che accese i Jethro Tull

Una vita tra riff taglienti e scelte di principio: la storia di un musicista che preferì il blues alla fama, e cambiò comunque il corso del rock

Redazione La Sicilia

22 Dicembre 2025, 13:19

17:29

“Cat’s Squirrel” al Marquee, l’urlo del blues: addio a Mick Abrahams, la prima chitarra che accese i Jethro Tull

Si dice che al Marquee Club di Londra bastassero poche battute di “Cat’s Squirrel” per capire che quella sera, sul palco, stava succedendo qualcosa. Una chitarra scavava linee di blues elettrico con una forza quasi percussiva; di fianco, un giovane con il flauto trasformava il suono della band in un animale nuovo, difficile da definire. Era la stagione calda del 1968, e il chitarrista era Mick Abrahams. Quel suono avrebbe incendiato “This Was”, il debutto dei Jethro Tull, prima che contrasti insanabili sulla direzione artistica lo spingessero a scegliere la strada più impervia: lasciare una band in pieno decollo per restare fedele al proprio istinto. Oggi quel chitarrista non c’è più: Mick Abrahams è morto a 82 anni il 19 dicembre 2025. A darne conferma è stato un ricordo firmato da Ian Anderson sul sito ufficiale dei Jethro Tull, seguito dall’omaggio dell’erede alla sei corde, Martin Barre. Due voci diverse, un medesimo giudizio: Abrahams è stato fondamentale per l’“anno zero” dei Tull.

This Was: l’atto di fondazione (e la scintilla del conflitto)

In poco più di sei settimane tra giugno e luglio 1968, i Jethro Tull incidono “This Was”: un album pagato allora “solo” £1.200, intriso di blues e jazz che porta l’impronta autorale e timbrica della chitarra di Mick Abrahams. Pubblicato a ottobre 1968, il disco raggiunge il picco alla posizione 10 della classifica UK: non ancora progressive, non ancora folk-rock sinfonico, ma già un’identità. Dentro, oltre a “Beggar’s Farm” e “A Song for Jeffrey”, il tiro del quartetto con Abrahams è l’elemento più “americano” del suono Tull: un blues terroso che dialoga con la flauta visionaria di Ian Anderson. Quella chimica, però, contiene la tensione che presto farà esplodere tutto: Abrahams vuole rimanere nel blues/rock, Anderson spinge verso folk e jazz, la linea che porterà a “Stand Up” e oltre. La frattura arriva subito dopo l’uscita del disco.

In coda alla sua esperienza Tull, Abrahams contribuisce ancora alla straordinaria “Love Story” (singolo del 29 novembre 1968, n. 29 in UK: la sua wah-wah è un sismografo emotivo), poi il commiato. È l’ultima fotografia ufficiale del suo dialogo con i compagni di allora: Ian Anderson, Glenn Cornick, Clive Bunker. L’inevitabile sostituzione — con un fugace intermezzo di Tony Iommi e quindi l’arrivo di Martin Barre — sancisce la biforcazione delle estetiche: i Jethro Tull imboccheranno una traiettoria sempre più autoriale e “contaminata” che li porterà nelle top ten dei primi ’70, mentre Mick inaugura un’altra storia.

Blodwyn Pig: la scommessa vinta (e interrotta)

Nato nel 1969 con Jack Lancaster ai fiati, Andy Pyle al basso e Ron Berg alla batteria, il progetto Blodwyn Pig è la risposta di Abrahams a chi gli chiedeva di adeguarsi. “Ahead Rings Out” esce nell’estate 1969 e arriva al numero 9 in UK: un successo immediato, sostenuto da un blues progressivo che lascia spazio a fiati e ibridazioni jazz, senza perdere l’urgenza chitarristica. L’anno dopo, “Getting to This” vola fino al numero 8 e illude che la band stia davvero per occupare uno spazio duraturo nell’olimpo britannico. Festival, tour prestigiosi, poster al Fillmore West accanto a Albert King e Country Joe & The Fish, bill condivisi con Led Zeppelin, Fleetwood Mac, King Crimson, Soft Machine. Sembra l’inizio di un capitolo lungo.

Eppure, come spesso accade quando la crescita è rapida, la stabilità non tiene il passo. Tensioni interne — con Abrahams che in seguito attribuirà a Pyle un ruolo di “istigatore” — e divergenze creative portano al collasso prematuro. In un’intervista di memoria lunga, Mick racconterà persino di essere stato “estromesso” dal gruppo che aveva fondato e di non aver voluto accendere battaglie legali pur possedendo il nome: una rinuncia di orgoglio più che di principio, seguita da un rapido scioglimento della formazione originale. La sua frase rimane una ferita lucida: “Se fossimo rimasti insieme, i Blodwyn Pig sarebbero diventati enormi”.

La coerenza come scelta estetica

C’è una costante nella carriera di Mick Abrahams: la fedeltà a un’idea di blues britannico personale, impastato di swing e drive. Questo lo rende meno “enciclopedico” di altri chitarristi coevi, ma più riconoscibile: la sua chitarra cerca il peso del fraseggio, il graffio del bending, la scorrevolezza dei turnaround. Il punto non è l’iperbole tecnica, ma la capacità di scolpire il groove. È ciò che si sente nei concerti di fine anni ’60, come testimoniano locandine e cronache di Reading, Plumpton e Fillmore: dove finiva il set, restava l’impronta di una chitarra capace di spingere in avanti senza saturare.

La salute come nemico, la musica come ritorno: “Revived!” e gli ultimi anni

Il prezzo della coerenza, per Mick, non fu il dimenticatoio: furono gli anni e la salute. Nel 2009 subì due infarti e un ictus “quasi nello stesso momento”, come racconterà in seguito: un colpo durissimo per un chitarrista che ha fatto del contatto fisico con lo strumento la cifra del proprio linguaggio. Eppure nel 2015 tornò in studio con “Revived!”, un disco di ritorno alla vita e al gioco, costruito come una festa tra amici: da Martin Barre a Bill Wyman, da Bernie Marsden a Paul Jones, da Mark Feltham a Jim Rodford e molti altri. Non solo: una parte significativa dei proventi sosteneva una causa benefica, a conferma di un’etica che travalicava l’ego. L’album, pubblicato da Gonzo Multimedia, contiene 17 brani e persino un DVD dietro le quinte nelle edizioni limitate: un piccolo scrigno di comunità rock.

La scena più potente, simbolicamente, è la prima e unica registrazione in studio che vede insieme Abrahams e Barre: “I Can Tell”. Lì, le due chitarre — il passato e il futuro della band che li rese celebri — si danno la mano a distanza di quasi mezzo secolo. È una foto di famiglia tardiva, che dice più di tante riconciliazioni ufficiali.

Il saluto dei compagni di viaggio

Alla notizia della scomparsa, Martin Barre ha scritto: “Il mio amico e mentore Mick Abrahams se n’è andato… Che magnifico chitarrista, che ci ha dato così tanto”. Parole semplici, pesanti. Sul sito ufficiale dei Jethro Tull, Ian Anderson ha firmato un ricordo fitto di dettagli: la conferma ricevuta da Clive Bunker dopo la telefonata della famiglia, l’importanza di Mick nella fase primordiale della band (le ceneri della John Evan Band e il progetto di McGregor’s Engine), la potenza vocale e chitarristica che incendiava “Cat’s Squirrel” al Marquee, e quella volta che suonarono persino da opening ai Cream. Non è un necrologio di circostanza: è il riconoscimento, da parte del leader che prese un’altra strada, che senza Abrahams non ci sarebbe stato l’innesco.