L'anniversario
Serafino Famà, sono passati trent'anni dall'omicidio. Le iniziative per ricordare l'avvocato ucciso dalla mafia
I figli e i familiari, con la camera penale, hanno organizzato una serie di iniziative. Domenica, inoltre, ci sarà l'intitolazione della piazza dove è avvenuto il brutale delitto
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Sono trascorsi 30 anni dalla morte dell’avvocato Serafino Famà, freddato il 9 novembre 1995 nei pressi del piazzale Sanzio. Con lui il giovane collega Michele Ragonese. Quella piazza, domenica, sarà intitolata a lui. I figli dell'avvocato Famà con la camera penale hanno promosso due giornate di iniziative. Domani, nella sala C3 de Le Ciminiere, si terrà l’incontro-dibattito su “Trent’anni di storia dell’Avvocatura Catanese: Enzo Trantino, Nando Sambataro e Serafino Famà” fortemente voluto dai figli dei tre penalisti. Interverranno i familiari di Famà, di Trantino e dell’avvocato Sambataro, oltre a numerosi colleghi della Camera penale, per «un momento di memoria e di condivisione degli aspetti che hanno unito e caratterizzato le vite di questi tre penalisti che erano unite da una fraterna amicizia, dalla toga e dall’amore per la cultura».
Domenica 9 novembre 2025, alle 09:30, cerimonia di intitolazione del Piazzale Serafino Famà, luogo in cui fu ucciso, e incontro sul tema “Serafino Famà: esempio di legalità e indipendenza”. Interverranno: don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, l’avvocata Flavia Famà, figlia di Serafino, la procuratrice aggiunta Agata Santonocito, Pietro Mancuso e l’avvocato Francesco Antille. Modera l’avvocato Goffredo D’Antona. L’iniziativa ha ottenuto il riconoscimento della Medaglia del Presidente della Repubblica, a testimonianza dell’alto valore civile e morale della memoria di Serafino Famà e dell’impegno dell’Avvocatura nel difendere i principi di giustizia, libertà e democrazia.
Per l’omicidio di Famà furono condannati i vertici e i sicari dei Laudani dell’epoca. La svolta nelle indagini arrivò nel 1997, quando Alfio Giuffrida collaborò con la giustizia. A dare l’ordine di uccidere l’avvocato, rivelò Giuffrida, fu Giuseppe Di Giacomo, storico reggente fin dal 1992 dei Laudani. L’avvocato Famà fu considerato dal boss “colpevole” di non aver consentito la testimonianza in un processo dov’era imputato. Anche il famigerato capomafia poi entrò nel programma di protezione raccontando i dettagli più agghiaccianti di quella condanna a morte.