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Mafia

Così funzionavano gli affari dei Cappello al "Locu": ecco perché il gup ha condannato i 35 imputati

Depositata le motivazioni della sentenza emessa la scorsa estate. Cruciali le dichiarazioni del pentito Michele Vinciguerra "u cardunaru"

Laura Distefano

14 Ottobre 2025, 13:38

14:22

Così funzionavano gli affari dei Cappello al "Locu": ecco perché il gup ha condannato i 35 imputati

«L'assunto è pienamente provato». Il gup di Catania Luigi Barone "certifica" che Rocco Ferrara, Giovanni Agatino Distefano, Domenico Querulo e Filippo Crisafulli erano «inseriti nel sodalizio mafioso» del clan Cappello-Bonaccorsi. Sono state depositate le 300 pagine delle motivazioni che hanno portato lo scorso luglio alla condanna dei 35 imputati dell'inchiesta «Locu». Il nome dell'indagine deriva dalla zona di Catania dove i cappelloti avevano creato una produttiva e lucrosa piazza di spaccio (su strada e indoor) fra via Testulla, via delle Calcare e via Bonfiglio. E se le imputazioni per associazione mafiosa erano solo per quattro imputati, gli altri a vario titolo sono stati condannati per droga (reato associativo) e spaccio.

Il quadro accusatorio è costituito dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia (Salvatore Castorina, Carmelo Liistro) e dalle intercettazioni, audio e video, inequivocabili. Ma a blindare l'apparato probatorio sono state le rivelazioni di Michele Vinciguerra «u cardunaru» che nel 2023 ha deciso di entrare nel programma di protezione.

Il gup ha inoltre analizzato elementi che sono arrivati da inchieste parallele: come quella scaturita dal monitoraggio delle pericolose tensioni scoppiate dopo lo scontro a fuoco al viale Grimaldi fra Cappello e Cursoti Milanesi. Per il gup il clan è diviso in sottogruppi, fra cui quello diretto da Rocco Ferrara nel quale «milita anche Giovanni Agatino Distefano». Invece il gruppo operante a San Cristoforo è composto da Domenico Querulo "da za Lina" e Filippo Crisafulli, questi ultimi in qualità di «membri della compagine criminale dei Crisafulli, detti «Cacazza», già parte integrante dei Cappello-Bonaccorsi». Michele Vinciguerra posiziona Crisafulli nel gruppo di «Sebastiano Lo Giudice - da oltre 15 anni al 41bis - vale a dire dei «carateddi»». Il pentito però avendo avuto delle tensioni con il sottogruppo non ha saputo aggiungere altro. Ma Crisafulli avrebbe operato per conto di Querulo. Questo lo confermano anche gli altri collaboratori.

Domenico Querulo non fu arrestato immediatamente. Si costituì negli uffici di via Ventimiglia a Catania, sede della squadra mobile, qualche giorno dopo. Dalle intercettazioni emerge in modo plastico il suo ruolo di capo rispetto agli altri, seppur magari "più vecchi" a livello anagrafico. Nel corso di una conversazione (captata dai poliziotti) fra Biagio Querulo e Salvatore Marino, alla presenza anche di Lucio Condorelli, emergeva nettamente chi fosse l'uomo più carismatico a livello criminale nella squadra mafiosa. Marino lamentava il mancato intervento dello zio Filippo Crisafulli per difenderlo dopo un'aggressione da parte di Carmelo Scilio, un trafficante di San Giovanni Galermo, per un debito di qualche grammo di droga. Marino, inoltre, evidenziava come il capo fosse Querulo, poichè Filippo Crisafulli, nonostante fosse il fratello del capostipite Franco Crisafulli "detto Cacazza", non potesse portare avanti «il nome della famiglia» perché non aveva il «necessario spessore criminale».

Biagio Querulo poi dava un ulteriore elemento sul fratello Domenico, specificando che nonostante loro due fossero i nipoti di Orazio Privitera «pilu u russu», il congiunto apparteneva al gruppo di Crisafulli. «Domenico cammina col suo nome ed è con Giovanni ‘u tuccu’». Che «anni addietro» avrebbe ricevuto il comando della famiglia da parte del padre Franco Crisafulli.